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C a t a l o g o
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Recensione |
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Orfana di madre, la diciottenne Lucy è mandata dal padre in Italia per una vacanza estiva, ospite di una coppia di inglesi, vecchi amici di famiglia che abitano in una villa di Gaiole in Chianti (Siena). Alla fine del soggiorno Lucy avrà avuto felicemente la sua prima esperienza sessuale e scoperto senza traumi l'identità del proprio padre biologico. Storia di un'educazione sentimentale (di un'attesa, di una ricerca, di un passaggio), il 13o film di B. Bertolucci (e il primo che gira in Italia dopo La tragedia di un uomo ridicolo) è fondato, più che su una vicenda, su una situazione. I temi, i problemi individuali e collettivi sono numerosi (tra cui la riflessione sull'arte come furto di bellezza altrui cui allude il titolo inglese: rubando la bellezza), e sono congeniali a un cineasta che non ha mai nascosto l'inclinazione al melodramma e ai conflitti tra passione e ideologia, ma qui sono espressi o suggeriti nei modi della leggerezza, della malinconia, della serenità. L. Tyler attraversa il film come un aquilone lesto nel cielo. I momenti più intensi sono i suoi rapporti col padrone di casa (D. McCann) e con il commediografo (J. Irons) alle prese con l'immensa frivolezza dei morenti. Ma è fonte di luce, nella sua malinconica saggezza di reggitrice della casa, l'irlandese S. Cusack, nella vita moglie di Irons. La società italiana rimane sullo sfondo, come fuori dal cerchio magico del paesaggio toscano, esaltato dalla fotografia dell'iraniano Darius Khondji (Seven) con luci che rimandano alla pittura dei fauves (Matisse, Derain, Vlaminck). Scene di Gianni Silvestri, montaggio di Pietro Scalia. Le inquietanti sculture postpicassiane sono dell'inglese Matthew Spender che abita nel Chianti e ha fatto da consulente artistico. La leggerezza del tocco, perseguita dal regista, è stata cercata in sceneggiatura con la scrittrice americana Susan Minot. |
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